martedì 29 novembre 2011

Lucio Magri: i cruciali anni sessanta

Il gramscismo alla prova


Tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ’60 mutamenti di enorme rilievo nel quadro internazionale e nella società italiana misero alla prova la cultura e la politica dei comunisti italiani: offrirono loro l’occasione di una più esplicita elaborazione strategica e sottoposero a un’aspra verifica quanto era stato, tra mille difficoltà, seminato. Tra l’altro, l’occasione di sviluppare in modo molto più compiuto le intuizioni di Gramsci sulla ‘rivoluzione in Occidente’ e di tradurre ciò che era fino ad allora un’ispirazione, un retroterra culturale, in una politica effettiva.
Vennero così in evidenza sia le potenzialità sia i limiti di quello che ho definito ‘gramscismo’, cioè la versione togliattiana del pensiero di Gramsci.
Oggi, nella memoria degli intellettuali e dei politici, e nel senso comune di massa, è molto impallidita la consapevolezza di quella cesura storica. Si è infatti abituati a considerare l’intero quarantennio della ‘guerra fredda’ e della ‘prima Repubblica’ come un continuum indifferenziato, un percorso lineare verso il suo esito finale. Ma la realtà non fu questa: all’interno del quarantennio ci sono stati momenti di rottura e salti di qualità, ciascuno aperto a diversi sviluppi sui quali i veri protagonisti in campo erano chiamati ad intervenire ed erano consapevoli di intervenire. Uno di questi momenti, il più importante, si colloca proprio tra gli anni cinquanta e sessanta: un mutamento di fase radicale per molti aspetti, e insieme molto complesso.
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Il primo e decisivo elemento di svolta si ebbe a livello mondiale per l’intreccio di due fattori, in certo senso e nel lungo periodo contradditori tra loro, ma a quel tempo convergenti e reciprocamente connessi. Da un lato il XX Congresso del Pcus con la denuncia brutale dello stalinismo e l’annuncio di un nuovo corso in Urss, di cui però subito si poterono valutare i limiti e le difficoltà nell’approssimazione teorica del kruscevismo e in eventi drammatici (crisi ungherese, polacca e tedesca). Dall’altro lato la novità nei rapporti di forza internazionali: l’affermazione dei movimenti di liberazione nel Terzo mondo e il costruirsi di un campo dei ‘non allineati’, la fine del monopolio atomico americano, i vistosi risultati economici e tecnico-scientifici dell’Unione Sovietica. Si impose allora per la prima volta e a livello di massa, anche tra i comunisti, la consapevolezza dei limiti storici del modello sovietico, ma in un contesto che non era di crisi distruttiva e anzi alimentava la speranza di una riforma come base per una nuova avanzata; e parallelamente si diffuse, nella classe dirigente dell’Occidente, la consapevolezza di dover reagire a tale eventualità non solo con la forza militare e con l’ideologia dell’anticomunismo ma con la politica e con l’economia. La logica della guerra fredda, dello scontro tra due sistemi sociali e due campi di potenza permaneva, ma si trasferiva però anzitutto in una sfida produttiva e in una competizione per l’egemonia. La ‘coesistenza pacifica’ era spesso ridimensionata o contraddetta dai fatti, ma non era una pura facciata propagandistica: corrispondeva a mutamenti profondi nella cultura e nei comportamenti all’interno dei due campi e nei rapporti tra loro.
Secondo elemento di svolta, anch’esso di portata mondiale ma particolarmente concentrato in Europa, fu un mutamento della fase economica e della struttura sociale del capitalismo. Ormai conclusa la ‘ricostruzione’, furono quelli gli anni del decollo della grande espansione produttiva, che poi durò più di un ventennio e investì l’Europa occidentale e l’Estremo Oriente, particolarmente i paesi usciti sconfitti dalla guerra mondiale. Quell’espansione ripercorreva – nella tecnologia e nei modelli di consumo – i sentieri già aperti dal capitalismo americano e ne accettava l’egemonia politica e culturale, e tuttavia offriva le basi materiali per una ripresa e un’ulteriore sviluppo del tentativo di ‘compromesso sociale e politico’ avviato dal new deal di fronte alla crisi degli anni trenta, e dai laburisti inglesi nell’immediato dopoguerra, ma poi bruscamente interrotto dall’avvio della guerra fredda e dalle dure scelte della restaurazione capitalistica. Particolarmente in Europa i partiti socialdemocratici e cristiano-democratici, al governo, costruirono su questa mediazione la loro forza e la loro identità proprio nel tornante fra anni cinquanta e sessanta.
Infine, la svolta fu ancora più radicale in Italia.
Qui lo sviluppo non solo fu più improvviso e mantenne a lungo un ritmo più sostenuto che altrove, ma produsse un salto di qualità nell’assetto economico e sociale: da una società ancora largamente agricola ad una società pienamente industrializzata, dai piccoli ai grandi centri urbani, dall’analfabetismo diffuso alla scolarizzazione di massa, con grandi migrazioni di popolazioni e sradicamento di antiche comunità e secolari costumi. Qui il sistema politico era fortemente segnato dalla discriminante comunismo-anticomunismo ma anche dal crollo del fascismo e di tutte le rappresentanze tradizionali della borghesia e dunque dalla competizione tra grandi organizzazioni politiche di massa: a un ‘compromesso riformistico’ era perciò preclusa la via maestra dell’alternanza al governo, ma nel contempo esso era già aperto ed esposto a travalicare i propri limiti di partenza.
Qui infine, e conseguentemente, in quei brevi anni, si produsse uno sconvolgimento nelle forme e nei protagonisti dello scontro sociale: in rapida successione, entrarono in crisi certi insediamenti e certe istituzioni del movimento operaio (la lotta nelle campagne, le Camere del lavoro, le grandi vertenze generali sul salario o l’imponibile di mano d’opera, la classe operaia di vecchia formazione) con forti spinte all’integrazione ideologica e alla subalternità sindacale nella nuova classe operaia e nei tecnici della grande fabbrica; ma si svilupparono altrettanto rapidamente nuovi conflitti e nuovi processi organizzativi (lo sciopero dei metalmeccanici del ’59, l’antifascismo giovanile del ’60, l’articolazione delle lotte e della contrattazione a livello d’azienda). Complessivamente insomma, una grande mutazione che ne avviava altre, i segnali di un nuovo passaggio dalla guerra di posizione alla guerra di movimento, ad una lotta per l’egemonia, in cui erano contemporaneamente presenti i due schieramenti tra i quali la storia della giovane Repubblica si era subito lacerata, entrambi in grado di giocare carte effettive.
In questa situazione i punti chiave dell’analisi e del pensiero di Gramsci non solo trovarono un nuovo e più fertile terreno di applicazione ma potevano essere assunti e sviluppati oltre i limiti dell’interpretazione già consolidata. Mi riferisco alla sua idea del carattere specifico e insieme del valore universale della ‘rivoluzione in Occidente’, alla sua attenzione per il capitalismo moderno e al suo parallelo rifiuto sia della semplificazione catastrofista sia della accettazione acritica della modernità, infine e soprattutto alla categoria della ‘rivoluzione passiva’ come pericolo permanente ma insieme come terreno sul quale attivamente intervenire per costruire un’egemonia alternativa. La strategia gramsciana, per la prima volta, poteva uscire dai confini costrittivi dell’antifascismo e della ‘disciplina di campo’.
Riuscì il Pci, negli ultimi anni della direzione togliattiana, e nella vivace dialettica del nuovo gruppo dirigente (Amendola-Ingrao) a cogliere questa occasione, a reggere questa verifica?
La risposta non è semplice, e non può essere univoca. Nell’immediato, e dal punto di vista politico, fu quello il momento della maggiore vitalità del Pci e dei suoi migliori risultati: esso riuscì ad evitare l’isolamento cui il centro-sinistra pareva condannarlo, a sviluppare un’opposizione di massa incisiva, a conquistare nuove avanguardie operaie, giovanili e intellettuali sulle quali costruì la successiva grande avanzata elettorale, a rinnovare i suoi gruppi dirigenti. Nel più lungo periodo e sul piano di una ridefinizione culturale e strategica è il caso di essere dubbiosi, e non solo con il senno del poi: un grande dibattito e coraggiosi tentativi rimasero per così dire a mezza strada, o produssero spinte e culture divaricanti che più tardi, nel bene e nel male, emersero chiaramente. Per ciò di cui qui direttamente ci occupiamo si può dire che, paradossalmente, la riflessione su Gramsci perse centralità e spessore. I due convegni nazionali su di lui che aprirono e chiusero quella fase – nel 1958 e nel 1967 – organizzati con grande impegno (relatore al primo fu lo stesso Togliatti) in realtà non produssero molto di nuovo, furono anzi marcati dallo sforzo di ribadire una continuità e di metterla al riparo dalle novità della fase storica e delle scelte che essa imponeva.
Il ‘gramscismo’ fu invece messo fecondamente alla prova sul campo, nel dibattito politico concreto, nell’analisi della nuova fase e nelle scelte che essa imponeva.
Questi dibattiti, intrecciati ma che ebbero il loro momento più appassionato in momenti successivi, furono tre: quello sul XX Congresso e sul rapporto con il ‘paese guida’ (1956), quello sulle nuove tendenze del capitalismo italiano (1962), quello sul centro-sinistra e sulla democrazia di partito (1964).
Non è ora il caso di ricostruirne nel dettaglio i termini e di esprimere giudizi compiuti che ci porterebbero troppo lontano dall’attuale argomento. Mi pare però possibile, e utile, fare alcune considerazioni su ciascuno di essi.
a) Il rapporto segreto di Kruscev produsse ovviamente nel Pci, come in ogni partito comunista, uno dei maggiori shock della sua storia: maggiore, per intenderci, perfino di quello prodotto dalla crisi dell’Est europeo alla fine degli anni ’80. Il rapporto Kruscev infatti non ‘rivelava’ nulla di inedito circa gli arbìtri e le repressioni degli anni trenta e quaranta: quasi tutto era già conosciuto in sede di ricerca storica e di memorialistica, era già stato diffuso e usato a livello di massa dall’anticomunismo. La novità traumatica stava però nel fatto che a svelare e denunciare quella realtà era questa volta il vertice stesso del Pcus, e nel riconoscimento che essa non era stata imposta solo dalle superiori necessità della difesa dell’Urss ma era stata prodotta da una pericolosa degenerazione del potere, della quale il partito comunista e il suo vertice erano promotori e diretti responsabili. Togliatti, che pure non condivideva il carattere spettacolare e approssimativo di quel rapporto, e apertamente lo criticò per questo aspetto nell’intervista a «Nuovi Argomenti», non cercò affatto di minimizzarne la portata come fecero quasi tutti i leader comunisti dell’epoca. Al contrario, sempre nell’intervista a «Nuovi Argomenti», cercò di portare l’innovazione politica e culturale del XX Congresso più a fondo e di renderla irreversibile intervendo su due punti cruciali. Anzitutto – affermò – non si possono leggere le degenerazioni dell’epoca staliniana solo con la categoria del ‘culto della personalità’ e addossarle tutte a Stalin, al contrario esse vanno indagate come problema generale del funzionamento della democrazia socialista. In secondo luogo, aggiunse, il superamento dello stalinismo non è solo un problema interno dell’Unione Sovietica o dei singoli partiti comunisti, ma impone e permette una nuova concezione dell’internazionalismo, il superamento della teoria e della pratica del partito-guida, una ‘unità nella diversità’, anzi un ‘policentrismo’. Sono le due grandi idee che costituiscono la discriminante su cui nell’immediato si avviò con decisione il rinnovamento dei gruppi dirigenti centrali e periferici del Pci, e si sarebbe per decenni compiutamente definita una identità specifica dei comunisti italiani nel mondo. I tratti costitutivi del pensiero di Gramsci, mediati dal togliattismo, acquistarono in quel momento una piena ed esplicita formulazione: una ‘via italiana al socialismo’, il tema della democrazia come suo elemento centrale.
Qui però Togliatti si fermò e, per alcuni anni, scelse anzi di porre il freno al dibattito e all’iniziativa, particolarmente sul piano della riflessione storica e teorica. È utile a questo proposito leggere la sua relazione, e l’intero dibattito, al convegno su Gramsci del ’58. Anzitutto per ciò che, paradossalmente, non vi si trova: i temi drammaticamente aperti dal XX Congresso e dalla crisi ungherese, cioè proprio la riflessione sulle possibilità di degenerazione implicite nel ‘socialismo in un solo paese’ (che proprio Gramsci aveva sollevato con tanto acume e coraggio), sono assenti, quasi che nulla, nel ’56, fosse accaduto.
In secondo luogo per due affermazioni che invece nella relazione ci sono, e restringono la portata di quelle del ’56: una, quella che asserisce comunque la superiorità democratica di qualsiasi forma di potere ‘socialista’, considerandola unicamente in relazione alle condizioni storiche, senza farne un ‘valore dirimente’ ai fini stessi dello sviluppo del socialismo, e separando cioè – a differenza di Gramsci – la ‘base economica’ dalle sue espressioni politico-istituzionali; l’altra, che indica come elemento nuovo, motore di una nuova ‘tappa del socialismo’ l’ingresso nella storia delle ‘grandi masse asiatiche’, tacendo la centralità o comunque marginalizzando il tema gramsciano, ma anche leninista, della ‘rivoluzione nei punti più alti’. Questa estrema prudenza, o reticenza, ad affrontare a fondo la ‘questione sovietica’, passata e presente, a ridurre la portata della ‘via italiana’ entro i confini nazionali e a sottacerne il valore generale, sarebbe durata, per Togliatti, fino ai suoi ultimi anni: il memoriale di Yalta, che costituisce al riguardo una svolta, un nuovo sforzo creativo, fu da lui steso solo alla vigilia della morte e non a caso era originariamente un documento riservato.
Non è solo una questione di ritardo nei tempi, ma una prudente limitazione dei temi affrontati. Certo in quegli anni si accentuò l’autonomia rispetto a concrete scelte sovietiche in politica internazionale (soprattutto nel riconoscimento dei movimenti di liberazione nel Terzo mondo come soggetto politico non allineato) e la ricerca sulla storia del Pci e su Gramsci divenne molto più spregiudicata e attenta; ma sul nodo del ‘socialismo reale’ la rimozione continuò. La riflessione sulla ‘democrazia socialista’, sulle sue forme e sulle sue specifiche istituzioni non andò a fondo e restò marginale nel dibattito del Pci: paradossalmente si svolse al suo interno, nella sinistra socialista (Panzieri, Libertini), che tentò di far leva su un aspetto del pensiero di Gramsci, sul Gramsci dei consigli, della democrazia dal basso (sia pure rivisitandolo ed enfatizzandolo) per dare a quel tema una ‘risposta da sinistra’. Altrettanto evidente è la censura nel giudizio sul modello di organizzazione sociale e sulla linea di sviluppo economico nella costruzione del socialismo già avviata dal XX Congresso del Pcus: la competizione tra i due sistemi come competizione economica (il ‘socialismo del goulash’) e la riforma economica appiattita nella sua dimensione tecnico-scientifica, concepita come modernizzazione, sviluppo neutrale delle ‘forze produttive’. Tanto che il Pci assistette con scarso interesse, in qualche settore quasi con sollievo, al passaggio decisivo dalle turbolenze krusceviane alla normalizzazione brezneviana.
In quel primo grande dibattito degli anni ’50 e ’60 insomma, più che in altri, la scelta che complessivamente passò fu quella del rinnovamento nella continuità. Nel momento della sua maggiore affermazione, della sua massima vitalità, il gramscismo togliattiano rinunciò così a sviluppare gli stimoli del pensiero di Gramsci, confermò quella interpretazione riduttiva che l’epoca precedente aveva reso obbligata, ma ormai poteva e doveva mutare.
Tale scelta fu anzitutto di Togliatti, ma vi concorsero sostanzialmente entrambe le componenti che cominciavano allora ad emergere nella nuova generazione di dirigenti comunisti e avrebbero segnato la sua storia successiva (ispirate, più che organizzate da Amendola e da Ingrao). Amendola all’inizio, subito dopo il XX Congresso, e poi in occasione del XXII Congresso del Pcus, cercò di far leva sul radicalismo krusceviano per contestare un eccesso di continuismo nel rinnovamento del Pci; ma era tanto radicata in lui l’idea che il rafforzamento politico ed economico dell’Urss costituiva l’indispensabile retroterra di una via italiana al socialismo che, di fronte alla graduale normalizzazione a Mosca divenne poi il più prudente tra i dirigenti del Pci nel rivendicarne l’autonomia politica e culturale. Al punto che, proprio al convegno su Gramsci del 1967 riaffermò la giustezza delle scelte del VI Congresso dell’Internazionale (quello del ‘socialfascismo’) in rapporto alla priorità della incondizionata ‘difesa dell’Urss’, e attribuì le riserve che Gramsci allora aveva manifestato al riguardo a una semplice ‘insufficienza di informazione’.
Ingrao, al contrario, gradualmente sviluppò e rese esplicita una riserva più di fondo sull’involuzione del modello sovietico, in particolare sul carattere asfittico della partecipazione e della democrazia di massa, ma con grande ritardo (cioè a partire dalla metà degli anni sessanta, quando la partita, su quel terreno, era ormai largamente compromessa) e senza mai mettere quella questione al centro della propria riflessione e della propria battaglia politica. Perfino l’ala più radicale dell’ingraismo, quella che dette vita al gruppo del «manifesto» e che fu radiata proprio per avere sollevato la questione del rapporto con l’Urss dopo la Cecoslovacchia, arrivò a tale stretta finale con una certa improvvisazione, ispirata, più che da Gramsci, da altre suggestioni (il ’68 operaio e studentesco) e perciò cadde in alcune gravi semplificazioni ideologiche sottovalutando, ad esempio, la dimensione mondiale del conflitto e sopravvalutando la rivoluzione culturale cinese come risposta adeguata alla crisi sovietica.
Le cause di questa prudente rimozione, di questo continuo rinvio a prendere atto della realtà non sono difficili da individuare, soprattutto per chi – come molti di noi – di quella vicenda è stato partecipe. La ricerca di una ‘via italiana al socialismo’ (cui, come abbiamo visto, la lettura di Gramsci aveva fornito una base teorica e un’autorità morale) non aveva infatti minimamente incrinato la fiducia assoluta nel ruolo dirigente dello Stato e del partito sovietico che anzi, tra i militanti e tra le masse, era andata, vieppiù rafforzandosi sull’onda della guerra vittoriosa e della fase postbellica della politica staliniana. L’idea che le due cose potessero non coincidere era, per così dire, ‘innaturale’, rischiava di aprire una lacerazione profonda. Tanto più che, in quegli anni decisivi, la ‘provocazione’ sollevata da Kruscev non trovava affatto eco e riscontro negli altri partiti comunisti: i quali vi resistevano (come il Pcf) o vi si opponevano radicalmente (come i comunisti cinesi: e non, come più tardi avrebbero fatto, in nome del policentrismo, ma in nome dell’ortodossia e del monolitismo).
Il timore dell’isolamento, dell’avventura e della divisione, in una fase nella quale (prima del 1960) anticomunismo e guerra fredda non erano ancora affatto in declino, era dunque fondato. Ma più ancora delle resistenze o dei timori, contò una fiducia che appariva allora altrettanto fondata: la fiducia nella capacità di riforma interna e di iniziativa mondiale dimostrate dal XX Congresso (una fiducia condivisa e confrontata da molte forze intellettuali e politiche della sinistra occidentale, compresi molti critici aspri del comunismo sovietico, come Deutcher). Tutto concorreva a fare del ‘rinnovamento nella continuità’ la scelta condivisa, e a porre l’accento della continuità particolarmente sulle questioni internazionali.
Ma sono altrettanto evidenti, riesaminando oggi quelle vicende, i prezzi che essa comportò. Sul versante della politica italiana, ne derivò un ostacolo grande a intervenire sulla crisi dell’anticomunismo centrista e a neutralizzare, nel momento del suo decollo, la grande operazione di recupero del Partito socialista entro il sistema di alleanze della Democrazia cristiana. Sul versante dei rapporti internazionali, ne derivò un ostacolo a far assumere al Pci un ruolo effettivamente trainante nella vicenda della sinistra europea e mondiale che proprio in quegli anni si veniva ridefinendo e ancora poteva scegliere tra strade diverse.
b) Su un’altra questione, e in un successivo dibattito, l’elaborazione e l’iniziativa politica del Pci manifestarono invece in quella stessa fase maggiore vitalità e maggiore coraggio, e si misurò quanto la lezione gramsciana antidogmatica, la sua passione per l’analisi storicamente determinata avesse formato un’intelligenza collettiva: la questione della trasformazione del capitalismo italiano. Anche a questo proposito c’era da rimuovere e superare convinzioni molto consolidate: infatti l’idea leninista, in base alla quale ormai il capitalismo era giunto alla sua fase finale, ‘putrescente’, irrigidendosi in una formulazione dogmatica e semplificata, e in più alimentata dalla crisi economica mondiale del ’29, non era solo stata il fondamento della politica settaria tra gli anni venti e trenta, ma era sopravvissuta anche nella strategia dei fronti popolari e nazionali. L’analisi del fascismo e la politica antifascista del Pci, che pure si distinsero per la capacità di cogliervi gli elementi di novità e di modernizzazione politica (si pensi alle ‘lezioni’ di Togliatti sul fascismo come regime reazionario ‘di massa’), non incrinarono la convinzione che l’economia capitalistica, e quella italiana in particolare, era ormai strutturalmente incapace di garantire un’espansione produttiva duratura e una generale modernizzazione tecnologica. Anche dopo la guerra e la rottura del ’47, la politica economica De Gasperi-Einaudi, il piano Marshall, il Patto Atlantico, furono visti come pura restaurazione del vecchio assetto capitalistico e denunciati come ritorno della vecchia Italia reazionaria, del dominio monopolistico: fino ai tardi anni cinquanta il processo di modernizzazione economica e sociale già in atto fu rimosso, e sovrastato, dalla grande battaglia contro l’arroganza padronale e clericale il cui punto più alto fu scontro vincente sulla ‘Legge truffa’ del ’53. L’attenzione acutissima di cui Gramsci era stato capace, in carcere, verso le novità del moderno capitalismo fordista era rimasta, come ho già accennato, isolata e senza ascolto nella prima e grande campagna di diffusione del suo pensiero.
Tuttavia, quando la realtà dell’espansione capitalistica divenne evidente, e si manifestarono le sue conseguenze politiche e sociali nelle sconfitte operaie, si avviò nel Pci e nella Cgil, con straordinario impegno intellettuale e politico, uno sforzo di analisi, di riflessione e anche di volontà autocritica. Il convegno sul progresso tecnologico del ’57, il congresso della Cgil del ’60, il convegno dell’Istituto Gramsci del ’62 sulle tendenze del capitalismo segnarono una svolta: una vera applicazione del gramscismo a una realtà storica nuova.
Una svolta culturale, in primo luogo. Per analizzare, e non solo fotografare, i caratteri nuovi del capitalismo avanzato e le trasformazioni nella composizione di classe che vi erano connessi, e soprattutto per contrastare i meccanismi di integrazione e conservare una propria autonomia, fu infatti necessaria al Pci una grande operazione di modernizzazione e sprovincializzazione della cultura propria e di quella italiana nel suo complesso: recuperare, in certo senso introdurre per la prima volta, un rapporto diretto con il pensiero di Marx, con ciò che lo distingueva dalla vulgata della Seconda e della Terza Internazionale, e dallo storicismo della tradizione italiana; acquisire conoscenza e fare i conti con il moderno pensiero sociologico ed economico della cultura anglosassone e insieme con il marxismo eterodosso e la cultura critica occidentale dell’anteguerra (da Husserl a Lukács, a Korsch, a Adorno), tutto un mondo di idee rimasto estraneo all’antifascismo italiano. Uno sforzo insomma di ‘lavare i panni’ del gramscismo nella cultura mondiale, che lo stesso Gramsci aveva faticosamente iniziato.
Sforzo convulso, spesso eclettico, ma il cui tratto originalissimo e fecondo, gramsciano appunto, stava nel fatto di coinvolgere non ristrette cerchie di specialisti ma un intero partito di massa e in stretta connessione tra cultura e politica, teoria e pratica.
Su questo e per questo si consolidò su basi nuove un rapporto tra movimento operaio e intellettualità italiana che altrove in Occidente in quegli anni deperiva, ciò che permise al Pci di capire, di partecipare e in qualche misura di anticipare, avvenimenti e tematiche che poi avrebbero dominato la scena nel grande moto del ’68.
Svolta politica, però e soprattutto. Tra gli anni ’50 e ’60 il centro-sinistra si presentava come insidiosa ipotesi di ‘rivoluzione passiva’. Il blocco uscito vincente dal 18 aprile del ’48 era stato messo in crisi sia dalla forte opposizione democratica, sia dalle trasformazioni economico-sociali che esso stesso aveva promosso (riforma agraria, fine del protezionismo) con la conseguente rottura a destra. Ma l’impetuoso sviluppo economico offriva strumenti nuovi ed efficaci di integrazione sociale. La Democrazia cristiana, con i suoi satelliti, manteneva d’altra parte una supremazia elettorale schiacciante e proprio allora costruiva le basi di un ramificato e nuovo potere nell’amministrazione pubblica e nell’industria di Stato; l’ingresso dei socialisti al governo lacerava tutto il tessuto del movimento operaio. Una politica di riforme modernizzatrici si avviava dunque nel segno di un solido controllo delle forze dominanti. Il Pci era stretto tra il rischio dell’isolamento e quello della subalternità.
Togliatti rispose con grande finezza politica: un’opposizione intransigente all’operazione politica di divisione del movimento operaio e contro l’ideologia che lo sosteneva, la denuncia e la lotta di massa contro i perduranti ritorni all’indietro e i compromessi con la destra, ma contemporaneamente la sfida e la verifica concreta delle proposte riformatrici, e la paziente difesa di quanto restava nel tessuto unitario a sinistra (nei sindacati, nei comuni, nelle cooperative).
Ma questa sapienza tattica non avrebbe potuto reggersi, né ottenere risultati, se non fosse stata animata e sorretta da un rinnovato livello di iniziativa nella società, che i comunisti seppero sviluppare soprattutto su tre terreni.
In primo luogo, la ricostruzione e il rilancio della lotta operaia in termini del tutto nuovi, e assai diversi da ciò che nello stesso periodo accadeva in altri paesi europei. Nuovi nei contenuti: per il peso crescente che veniva assegnato non solo alle rivendicazioni salariali ma alla contrattazione delle condizioni di lavoro e della sua organizzazione (ritmi, qualifiche, premi di produzione, salute). Nuovi nella forma e nelle sedi del conflitto: per l’affermarsi della contrattazione articolata come risposta in positivo all’aziendalismo e recupero di un rapporto diretto con la giovane classe operaia delle grandi fabbriche (lo sciopero dei metalmeccanici del 1959). Nuova nei rapporti sindacali, per la scelta dell’autonomia e la ricostruzione di un’unità fra organizzazioni confederali per molti anni ferocemente divise.
In secondo luogo un salto di qualità nella concezione e nell’uso del decentramento e dell’autonomia locale. All’inizio il Pci era stato diffidente nei confronti del regionalismo e aveva consolidato il proprio potere nei comuni su una linea di buona gestione amministrativa. In quegli anni invece compì a fondo la scelta delle autonomie locali e usò le amministrazioni dove ne disponeva con ben maggiore ambizione, cioè per avviare esperienze concrete di servizi sociali e di riorganizzazione urbanistica e promuovere, a volte dirigere, una trasformazione della piccola attività produttiva.
Non tutto procedette in modo efficace su questo terreno (anzi in certe zone del paese si crearono allora le basi del consociativismo e della passivizzazione delle masse): ma nel nucleo decisivo (le regioni rosse) crebbero non solo solide esperienze di governo, ma una nuova leva di quadri e un nuovo tessuto di alleanze.
In terzo luogo, e in connessione con tutto ciò, una ripresa della battaglia democratica con nuovi protagonisti, nuovi contenuti, nuove forme di lotta. La resistenza accanita e i minacciosi colpi di coda che le forze reazionarie e le classi dominanti opposero alla nascita del centro-sinistra (un passaggio niente affatto tranquillo, anzi traumatico) trovarono di fronte a sé anzitutto e soprattuto una mobilitazione di massa promossa proprio dai comunisti, che pure quel centro-sinistra si proponeva di isolare. Una nuova generazione si avvicinò così alla politica nello scontro antifascista del luglio ’60 e nelle lotte per la pace e a sostegno dei movimenti di liberazione dal colonialismo (Algeria, Congo, Cuba, prima del Vietnam): lotte che riscoprivano il valore della presenza diretta, di piazza, che uscivano dai confini dei rigidi schieramenti della guerra fredda, e rendevano di nuovo evidente il ruolo del Pci come presidio principale della democrazia italiana e del suo allargamento.
Va oggi di moda dire e pensare che il Pci, nella storia delle Repubblica, sia sempre stato, di fatto, senza dirlo né saperlo, una grande forza socialdemocratica.
Il che sarebbe vero, se si intendesse con ciò, semplicemente, che esso non si è mai proposto una lotta risoluta e immediata per il potere, ha accettato di muoversi nella legalità costituzionale e si è proposto riforme economiche e politiche all’interno del sistema esistente. Ma proprio considerando il periodo di cui sto parlando, diventa evidente anche come quella affermazione sia arbitraria e ingannevole. Il ‘riformismo’ dei comunisti italiani assunse infatti allora una carattere molto particolare, distintivo rispetto alle esperienze socialdemocratiche dell’epoca. Da un lato, ovviamente, perché il Pci, oltre a conservare un collegamento con un movimento internazionale, restava animato da una intenzione complessivamente anticapitalistica non solo apertamente proclamata ma condivisa dai milioni dei suoi militanti e dei suoi elettori: collegamento e intenzione che gli impedivano una diretta partecipazione al governo e gli imponevano di incidere su di esso attraverso l’opposizione (ciò che fu poi arbitrariamente classificato come ‘consociativismo’ ed era invece anche, se non solo, uso positivo di un rapporto di forza nel parlamento e nel paese). Dall’altro lato, e soprattutto, perché anche i più limitati obiettivi di riforma erano perseguiti e raggiunti attraverso una costante mobilitazione di massa, una ‘occupazione diffusa’ di casematte, una costruzione permanente di egemonia e di alleanze. In questo senso si può ben dire che negli anni sessanta la sperimentazione dell’ipotesi strategica gramsciana arrivò al suo punto più alto. I risultati, almeno nell’immediato, furono notevolissimi: il centro-sinistra, anziché isolare i comunisti italiani e ridurne la forza, in pochi anni li portò al punto massimo della loro espansione (elettorale, sociale, culturale). Senza tutto questo, il particolarissimo ‘68-’69 italiano sarebbe stato impossibile.
E tuttavia quel grande sforzo di riflessione e di iniziativa conteneva in sé dei punti deboli, dei nodi irrisolti che solo più tardi sarebbero venuti progressivamente alla luce e avrebbero prodotto conseguenze pesanti.
Nel dibattito sulla trasformazione neocapitalistica cominciò a definirsi nel Pci una dialettica politica e culturale del tutto diversa da quella delle fasi precedenti e diversa anche da quella che continuava a dominare negli altri partiti comunisti: una dialettica non più tra ‘dogmatici’ e ‘rinnovatori’, ma tra una ‘destra’ e una ‘sinistra’ entrambe impegnate in uno sforzo di rinnovamento. Il che era una prova di vitalità e un elemento di forza. Ma né l’una né l’altra di queste componenti seppe elaborare analisi e proposte politiche adeguate. Mise allora le prime radici la tendenza a considerare lo sviluppo e la modernizzazione capitalistica come la bandiera permanente del movimento operaio, da impegnare contro la permanenza delle sacche di arretratezza e le resistenze dei ‘monopoli privati’, sottovalutando sia i guasti e i prezzi di questa modernizzazione nel lungo periodo (la questione emersa già allora della ‘qualità dello sviluppo’), sia le nuove forme che venivano assumendo e i meccanismi degenerati con cui venivano gestite le ‘sacche di arretratezza’ (l’assistenzialismo meridionale, le baronie dell’intervento pubblico). Nello stesso tempo si radicò la tendenza opposta a dare per compiuto o almeno scontato un processo di espansione capitalistica, di unificazione nazionale e di redistribuzione del reddito, e dunque a trasferire completamente il conflitto politico e sociale o sul terreno diretto del conflitto capitale-lavoro in fabbrica o su quello culturale delle ‘nuove alienazioni’.
Da un lato insomma c’era l’appiattimento del nesso democrazia-socialismo di Gramsci a un togliattismo senza più confini rispetto alla socialdemocrazia, dall’altro una sua tendenziale assimilazione al marxismo radicale e libertario della Luxemburg o del giovane Lukács. Su di un punto – teorico e politico – quel duplice limite veniva a convergere, con opposte motivazioni, in un unico risultato: la disattenzione, e perciò la difficoltà, verso l’elaborazione di una nuova piattaforma programmatica che traducesse una critica di sistema in obiettivi intermedi di riforma. Ne risultava l’incapacità di offrire una alternativa alla mera traduzione italiana del welfare europeo mediata dall’assistenzialismo democristiano. (21 ottobre 2001)







29/11/2011


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