Il corpo straziato di Gheddafi
esposto al mercato dei polli
Misurata, nella calca dell’improvvisata camera mortuaria: è stato giustiziato
GIOVANNI CERRUTI
INVIATO A MISURATA
Avessero deciso loro l’avrebbero portato qui, in questa piazza che è diventata un museo all’aperto, dove a mezzogiorno portano in trionfo l’ultima parte del bottino di guerra, quello che hanno trovato sulla Toyota della fuga.
Le mutande di seta viola del Colonnello, il pigiama di seta blu a pois bianchi, lo specchio tondo e il pettine, una blasfema bottiglia di gin, gli occhiali da sole, un fazzoletto verde, i guanti, il cappotto con le mostrine. «E il Viagra!», urla Hamed agitando una scatola di medicine. Sono pasticche di «Glovit», soltanto vitamina. Non importa, per i 400 mila di Misurata sarà per sempre Viagra. «Porco!».
E invece no, almeno su questo i Ribelli di Misurata si sono fermati. E tocca a loro, sebbene di malavoglia, accompagnare Muammar Gheddafi nelle sue ultime ore sulla terra. Lo scortano nella notte, cambiano almeno due improvvisati obitori: una cella frigorifera per polli e poi un container per casse d’acqua minerale. Continuano a cercarlo, a Misurata, lo vogliono vedere. Alle otto di sera, lontano dalla città, Gheddafi è al «Mercato dei Tunisini». Fuori dai cancelli c’è ressa, spingono, urlano. Lui è al posto dei polli, su un materasso giallo, due buchi nel petto, la testa girata a sinistra, a coprire il colpo alla tempia.
Nella cella è tutto uno scattare e filmare, non c’è combattente di Misurata che non abbia queste immagini nel telefonino. «Presto, presto, fate presto». Solo loro possono entrare, i Tuwar che hanno vinto la caccia al Topo. Loro che si raccontano come l’hanno preso, e a sentirli pare che attorno a quel tunnel di Sirte ci sia stata la Libia tutta. Più che le parole questa volta contano davvero le immagini, come quella che riprende il Colonnello ancora in piedi, ferito e lucido, che reagisce a pugni e spintoni: «Quello che state facendo è peccato grave», dice. Si sente un colpo secco, forse quello mortale. Ma l’immagine non c’è più.
Ora che è su questo materasso giallo a fiori marroni, con una smorfia che fissa la sua fine, l’hanno lasciato con i pantaloni della divisa. Avevano detto, giovedì, che era morto per le ferite alla testa, alle gambe e allo stomaco. Mohammed el Bibi, il ragazzotto che gli ha preso la pistola d’oro, aveva annunciato al mondo d’avergli sparato in pancia. Un piccolo foro di proiettile c’è, ben ripulito dai medici e da chi l’ha lavato. Ma restano ben visibili ferite, lividi, tagli sulle braccia, sui fianchi, sul petto. Come se Gheddafi, prima del colpo alla tempia, fosse stato strattonato, malmenato, aggredito dall’ira. E finito.
In questo strano obitorio di Misurata s’incontra chi c’era. Non a Sirte, appena fuori dal tunnel di cemento, dove l’hanno trovato. Ma qualche chilometro lontano, sulla strada che porta qui a Misurata, al check-point numero 50. Abdel Rahoumah, 34 anni, «Ufficiale di polizia prima di passare con i Ribelli», era lì. «È arrivata la colonna di Twuar con in mezzo l’ambulanza, non sapevo ancora niente e non è stato difficile immaginare che dentro ci fosse lui. Era ancora vivo, con il medico vicino. Si sono fermati ed è stato il caos, tutti attorno Un ragazzino gli ha strappato i capelli, ha detto che erano finti e unti di nero».
Abdel il poliziotto ha cinque filmati nel telefonino. C’è quello che si chiude con il colpo di pistola, «ma non è successo al check-point 50. Sono ripartiti per Misurata dopo dieci minuti, e ho visto che era ancora vivo». Non sa, Abdel, se l’ambulanza si sia fermata ancora. «Forse era già successo prima». Mohammed Behlil era a Sirte, vicino al tunnel. «Quando è salito in ambulanza camminava, nessuno gli aveva sparato alla testa». Insomma, nemmeno i Combattenti sanno cosa sia davvero successo, ammesso che la questione li appassioni. Piuttosto, seppellirlo qui, e anche questo è trofeo di guerra, o mandarlo via, lontano da Misurata?
Il cimitero ha muri bianchi e bassi, coperti dalle scritte con i nomi dei Martiri. «Non lo vogliono, qui. Qui ci stanno solo i martiri. Vada via!», grida una donna. C’è chi lo vorrebbe buttare in mare, «così non è più nemmeno sotto la nostra terra». Ma almeno un’ultima volta, e per molti di loro sarebbe l’unica, lo vogliono vedere da vicino. «L’abbiamo dovuto spostare almeno tre volte», dicono dal comando militare del Consiglio Nazionale di Transizione, mentre al primo piano, negli studi di «Radio Misurata» arrivano le telefonate di chi vuol sapere «dov’è il Topo», «se non lo vedo non ci credo», «vi prego, ditemelo».
Il Colonnello e Mutassim, il capo del temuto servizio di sicurezza interno, li avevano portati a casa di Anwar Sanwan, 41 anni, la barba riccia, il Ribelle che abita nelle case di Mar Bath, le dune di sabbia e subito c’è il mare. «Ma arrivava troppa gente e li abbiamo portati qui», e indica il vecchio deposito di ghiaia ora occupato dalle Tigri di Misurata. Di fronte c’è l’antenna bianca e rossa della tv, la prima a esser stata colpita dall’aviazione di Gheddafi il 20 febbraio. Lo credevano all’ospedale, il Colonnello. Invece era qui, accanto al figlio, nel container 45R1 e la scritta «Evergreen», sempre verde.
Alle undici del mattino, quando Anwar infila la chiave nel grosso lucchetto del container e apre la porta, un moscone s’infila nel gelo. Mutassim è sui bancali di legno, una coperta arancione come materasso, nudo, solo un lenzuolo di garza azzurra e un altro verde a coprirlo appena. Barba e capelli sono un misto di sangue e sabbia, ha un buco sotto la gola, un secondo in mezzo al petto, un terzo alla gamba sinistra. «E qui sotto - indica Anwar, e pare un esperto becchino - si vede il segno del prelievo per l’esame del Dna. L’abbiamo fatto anche al padre, in modo che nessuno abbia mai più un dubbio. È finita davvero».
Non sembra, attorno a questo container svuotato in fretta dalle bottiglie di minerale marca Shafia, lo stesso nome della moglie del Colonnello, la madre di Mutassim. Si sentono i canti delle donne del quartiere, che prima della preghiera del venerdì arrivano con le figlie. Hanno saputo che il corpo di Gheddafi, portato via nella notte, tornerà a metà pomeriggio. E prepareranno la festa, con i pentoloni per il riso e il montone, le ceste di datteri freschi, gli altoparlanti con la musica, i bambini armati di pistole giocattolo che ballano. Ma sarà troppo rischioso riportare il Colonnello nel container. Festa funebre annullata.
Ancora una notte nella cella frigorifera dei polli, per Gheddafi. In una Misurata che resta tutta macerie, vuota di giorno e la sera piena di luci e di macchine. Alle nove una colonna di Twuar sta scortando un’ambulanza. «È lui, è lui!», si muove la folla. Sparano in aria dalla Piazza del bottino di guerra. Non era lui, e forse è l’ultima notte al «Mercato dei Tunisini». Ai cancelli continuano a premere, nessuno che voglia sapere come è morto, tutti che lo vogliono vedere. E la tv Al Arabyia chiude il tg con gli ultimi secondi del rais vivo. I calci, gli sputi, le spinte. E una pistola che si avvicina alla tempia sinistra.
Avessero deciso loro l’avrebbero portato qui, in questa piazza che è diventata un museo all’aperto, dove a mezzogiorno portano in trionfo l’ultima parte del bottino di guerra, quello che hanno trovato sulla Toyota della fuga.
Le mutande di seta viola del Colonnello, il pigiama di seta blu a pois bianchi, lo specchio tondo e il pettine, una blasfema bottiglia di gin, gli occhiali da sole, un fazzoletto verde, i guanti, il cappotto con le mostrine. «E il Viagra!», urla Hamed agitando una scatola di medicine. Sono pasticche di «Glovit», soltanto vitamina. Non importa, per i 400 mila di Misurata sarà per sempre Viagra. «Porco!».
E invece no, almeno su questo i Ribelli di Misurata si sono fermati. E tocca a loro, sebbene di malavoglia, accompagnare Muammar Gheddafi nelle sue ultime ore sulla terra. Lo scortano nella notte, cambiano almeno due improvvisati obitori: una cella frigorifera per polli e poi un container per casse d’acqua minerale. Continuano a cercarlo, a Misurata, lo vogliono vedere. Alle otto di sera, lontano dalla città, Gheddafi è al «Mercato dei Tunisini». Fuori dai cancelli c’è ressa, spingono, urlano. Lui è al posto dei polli, su un materasso giallo, due buchi nel petto, la testa girata a sinistra, a coprire il colpo alla tempia.
Nella cella è tutto uno scattare e filmare, non c’è combattente di Misurata che non abbia queste immagini nel telefonino. «Presto, presto, fate presto». Solo loro possono entrare, i Tuwar che hanno vinto la caccia al Topo. Loro che si raccontano come l’hanno preso, e a sentirli pare che attorno a quel tunnel di Sirte ci sia stata la Libia tutta. Più che le parole questa volta contano davvero le immagini, come quella che riprende il Colonnello ancora in piedi, ferito e lucido, che reagisce a pugni e spintoni: «Quello che state facendo è peccato grave», dice. Si sente un colpo secco, forse quello mortale. Ma l’immagine non c’è più.
Ora che è su questo materasso giallo a fiori marroni, con una smorfia che fissa la sua fine, l’hanno lasciato con i pantaloni della divisa. Avevano detto, giovedì, che era morto per le ferite alla testa, alle gambe e allo stomaco. Mohammed el Bibi, il ragazzotto che gli ha preso la pistola d’oro, aveva annunciato al mondo d’avergli sparato in pancia. Un piccolo foro di proiettile c’è, ben ripulito dai medici e da chi l’ha lavato. Ma restano ben visibili ferite, lividi, tagli sulle braccia, sui fianchi, sul petto. Come se Gheddafi, prima del colpo alla tempia, fosse stato strattonato, malmenato, aggredito dall’ira. E finito.
In questo strano obitorio di Misurata s’incontra chi c’era. Non a Sirte, appena fuori dal tunnel di cemento, dove l’hanno trovato. Ma qualche chilometro lontano, sulla strada che porta qui a Misurata, al check-point numero 50. Abdel Rahoumah, 34 anni, «Ufficiale di polizia prima di passare con i Ribelli», era lì. «È arrivata la colonna di Twuar con in mezzo l’ambulanza, non sapevo ancora niente e non è stato difficile immaginare che dentro ci fosse lui. Era ancora vivo, con il medico vicino. Si sono fermati ed è stato il caos, tutti attorno Un ragazzino gli ha strappato i capelli, ha detto che erano finti e unti di nero».
Abdel il poliziotto ha cinque filmati nel telefonino. C’è quello che si chiude con il colpo di pistola, «ma non è successo al check-point 50. Sono ripartiti per Misurata dopo dieci minuti, e ho visto che era ancora vivo». Non sa, Abdel, se l’ambulanza si sia fermata ancora. «Forse era già successo prima». Mohammed Behlil era a Sirte, vicino al tunnel. «Quando è salito in ambulanza camminava, nessuno gli aveva sparato alla testa». Insomma, nemmeno i Combattenti sanno cosa sia davvero successo, ammesso che la questione li appassioni. Piuttosto, seppellirlo qui, e anche questo è trofeo di guerra, o mandarlo via, lontano da Misurata?
Il cimitero ha muri bianchi e bassi, coperti dalle scritte con i nomi dei Martiri. «Non lo vogliono, qui. Qui ci stanno solo i martiri. Vada via!», grida una donna. C’è chi lo vorrebbe buttare in mare, «così non è più nemmeno sotto la nostra terra». Ma almeno un’ultima volta, e per molti di loro sarebbe l’unica, lo vogliono vedere da vicino. «L’abbiamo dovuto spostare almeno tre volte», dicono dal comando militare del Consiglio Nazionale di Transizione, mentre al primo piano, negli studi di «Radio Misurata» arrivano le telefonate di chi vuol sapere «dov’è il Topo», «se non lo vedo non ci credo», «vi prego, ditemelo».
Il Colonnello e Mutassim, il capo del temuto servizio di sicurezza interno, li avevano portati a casa di Anwar Sanwan, 41 anni, la barba riccia, il Ribelle che abita nelle case di Mar Bath, le dune di sabbia e subito c’è il mare. «Ma arrivava troppa gente e li abbiamo portati qui», e indica il vecchio deposito di ghiaia ora occupato dalle Tigri di Misurata. Di fronte c’è l’antenna bianca e rossa della tv, la prima a esser stata colpita dall’aviazione di Gheddafi il 20 febbraio. Lo credevano all’ospedale, il Colonnello. Invece era qui, accanto al figlio, nel container 45R1 e la scritta «Evergreen», sempre verde.
Alle undici del mattino, quando Anwar infila la chiave nel grosso lucchetto del container e apre la porta, un moscone s’infila nel gelo. Mutassim è sui bancali di legno, una coperta arancione come materasso, nudo, solo un lenzuolo di garza azzurra e un altro verde a coprirlo appena. Barba e capelli sono un misto di sangue e sabbia, ha un buco sotto la gola, un secondo in mezzo al petto, un terzo alla gamba sinistra. «E qui sotto - indica Anwar, e pare un esperto becchino - si vede il segno del prelievo per l’esame del Dna. L’abbiamo fatto anche al padre, in modo che nessuno abbia mai più un dubbio. È finita davvero».
Non sembra, attorno a questo container svuotato in fretta dalle bottiglie di minerale marca Shafia, lo stesso nome della moglie del Colonnello, la madre di Mutassim. Si sentono i canti delle donne del quartiere, che prima della preghiera del venerdì arrivano con le figlie. Hanno saputo che il corpo di Gheddafi, portato via nella notte, tornerà a metà pomeriggio. E prepareranno la festa, con i pentoloni per il riso e il montone, le ceste di datteri freschi, gli altoparlanti con la musica, i bambini armati di pistole giocattolo che ballano. Ma sarà troppo rischioso riportare il Colonnello nel container. Festa funebre annullata.
Ancora una notte nella cella frigorifera dei polli, per Gheddafi. In una Misurata che resta tutta macerie, vuota di giorno e la sera piena di luci e di macchine. Alle nove una colonna di Twuar sta scortando un’ambulanza. «È lui, è lui!», si muove la folla. Sparano in aria dalla Piazza del bottino di guerra. Non era lui, e forse è l’ultima notte al «Mercato dei Tunisini». Ai cancelli continuano a premere, nessuno che voglia sapere come è morto, tutti che lo vogliono vedere. E la tv Al Arabyia chiude il tg con gli ultimi secondi del rais vivo. I calci, gli sputi, le spinte. E una pistola che si avvicina alla tempia sinistra.
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