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Quando il secondo aereo puntò sulla Torre Sud del World Trade Center, Lyle Owerko si ritrovò catapultato nella sua Africa. «Se vuoi riprendere il leone che si avventa sulla preda non devi mai cominciare a scattare quando s' invola. Devi aspettare. Puntare sul suo obiettivo proprio mentre comincia a saltare. E quando atterra...». Quando il leone impazzito di Al Qaeda abbrancò la preda inerme - quando il volo American Airlines 175 si scagliò contro la seconda Torre Gemella - Lyle Owerko si ritrovò con la fotografia del secolo impressa nella sua Fujifilm 645 Zi. E una ferita grande come quel buco nel grattacielo: ma dentro al suo stomaco. «Per anni continuavano a fermarmi nei mille party di New York: sei tu il fotografo della copertina di ' Time' ? Grande!! Però dentro di te lo sai che è come avere scattato l' orrore di Hiroshima. E tu che cosa diresti al fotografo di Hiroshima: bel lavoro?». Owerko, quarantenne canadese, studio a New York, è testimone per caso. Anche lui ha cercato - dopo l' 11 settembre - che tutto tornasse come prima. «Prima» era un fotografo di musica e un reporter innamorato dell' Africa. «Dopo» aver scattato la foto più famosa ha provato a restare lo stesso. I suoi ultimi libri sono un reportage sulla tribù kenyota dei Samburu e il «BoomBoox Project»: una storia dei radioloni che hanno fatto il rap scritta con Spike Lee.
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Foto scattata circa 30 secondi dopo l'impatto del secondo aereo contro la torre sud del World Trade Center. Dopo la pioggia iniziale dei pezzi dei due aerei e di detriti della Torri, l' aria era ingombra di documenti sospesi nel cielo come coriandoli |
Non proprio un portafoglio di guerra. Anzi. Quasi un' espiazione. L' unica celebrazione l' ha ripercorsa in un libro che non ha messo neppure in vendita e che per il primo anniversario inviò ai leader del mondo: «E gli uccelli smisero di cantare». Bastano dieci anni per rifare i conti col passato che non passerà mai? «Avevo trascorso gli ultimi due mesi in Africa. Il mio amore: Tanzania. Amore doppio: avevo messo su casa lì con una giornalista norvegese. Che romantica l' idea di questi due reporter in luna di miele in Africa. Ma io avevo bisogno di soldi. Dico: torno a New York. Lei: non farlo, non puoi, non adesso. Invece torno: due giorni prima dell' 11 settembre. La notte prima pioveva che Dio la mandava. Ero uscito con un amico. Sul metrò la gente leggeva il Post con quel titolone: i missili che ci difenderanno. E noi: missili? Per difenderci da che? Stravolto dal jet leg mi sveglio alle 4 del mattino. Sono al computer in shorts che lavoro da ore. Ed è allora che sento il suono più orribile che avessi mai potuto provare». «Immaginate un jet che si schianta a 550 miglia all' ora a quell' altezza: l' orecchio umano non è abituato a nulla di simile. Penso: mio Dio - s' è schiantato qui a Tribeca. Mi infilo jeans e tshirt. Sulla porta acchiappo la borsa con la macchina fotografica che non avevo neppure tirato fuori tornato dall' Africa. Denis, il portiere, mi fa: ho visto un jet sul World Trade Center. Il World Trade Center? Cominciò a correre a perdifiato su Broadway. Lo dico sempre agli studenti di giornalismo: ci vuole un fisico bestiale». «All' incrocio con Chambers giro a destra. Ancora a destra su Church. Mi fermo. E per la prima volta le vedo. Fumo. Un incidente? Mi dico: devo arrivare lì sotto. Mi vedo già la ' mia' foto: la Torre in fiamme e l' altra. Tutti corrono verso il punto dell' esplosione. Io invece voglio prenderle di fronte. Davanti al sole. È una vita che abito in questo quartiere. Quelle Due Torri sono i mie Due Alberi. Con il sole e con la nebbia. Con la pioggia e con la neve. E adesso voglio riprendermi le mie Due Torri nel cielo blu che si è aperto dopo una notte di pioggia d' inferno. Ma non è ancora il momento. Che succede? È solo nello zoom che scopro cosa sto fotografando.
Uomini. Uomini che vengono giù. Continuo a scattare: quanti sono? Non riesco a contarli. Una dozzina. Venti. Molti di più». «La gente piange, urla. Ed è allora sento il secondo aereo. Ancora quel suono orribile. Giro la macchina meccanicamente. In agguato come in Africa. Ecco: quattro sequenze. La Torre intatta. L' esplosione. Il grattacielo che si sbriciola in mille pezzi. Il fuoco. Comincia a piovere di tutto. Un poliziotto mi grida: "Ce l' hai? L' hai preso?". Un altro urla: "Confiscategli la macchina!". C' è un signore tutto compito con la camicia oxford rosa. "Lo sai cos' è questa? Jihad". Un altro poliziotto urla: "C' è un terzo aereo in arrivo!". E il capo: "Adesso fuori di qua! Al diavolo!". Comincio a correre. Mi volto dietro all' incrocio tra Vesey e Church. Dove c' è la chiesa di Saint Paul. Punto per l' ultima volta l' obiettivo. Compongo a mente l' immagine. I grattacieli. Le fiamme. Inquadro il timpano di quella chiesa tra le fiamme e il cielo blu. Eccola la foto: la mia foto. Un tizio in giacca e cravatta che barcolla imbambolato: lo prendo sotto il braccio e lo porto lontano da lì. Via». «Corro al laboratorio: cosa ci sarà nella mia Fuji? Che caos: tutti colleghi in fila. Intanto sta venendo giù la seconda Torre. Vento e macerie. Il cielo si oscura: per strada ora è notte a mezzogiorno. Quel grande cielo blu dietro alle mie Torri: mai più. Sono in un film dell' orrore. Torno per strada: al lavoro. Martedì. Mercoledì. Giovedì. Venerdì. Tre notti e quattro giorni a scattare come pazzi. È venerdì mattina quando mi spingo finalmente fuori. All' uscita da Soho risuona il cellulare: c' era il black-out in tutta la zona. Papà e mamma: da Londra. Non sapevano se fossi ancora vivo. Corro a Union Square per vedere un collega. C' è quella grande edicola: Universal News. Davanti, una pila di Time. Guardo la copertina: sono proprio io? Quello scatto non l' avevo neppure rivisto. Apro. Leggo la firma: Lyle Owerko. Rimetto giù il giornale. Ho un grido dentro: e adesso?». -
ANGELO AQUARO, NEW YORK
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